ARTI FIGURATIVE

Franca Batich

diario di un anima

di Tino Sangiglio

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Franca Batich - Copertina prospetto mostra Le vibrazioni dell’anima, i moti interiori che agitano la vita e la portano spesso alla soglia del dubbio e dell’incertezza, i dati della memoria che si affollano e chiedono di essere portati alla luce e di riappropriarsi del loro spazio, il guazzabuglio lacerante di tensioni e di aporie: le tempeste dei sentimenti di rado sono rappresentate nelle opere d’arte: impresa ardua preclusa agli improvvisatori e riserva invece di artisti di vaglia com’è Franca Batich che di questa difficile materia intarsia il proprio lavoro pittorico.
L’opera sua – quella comunque finora esposta in maniera organica e unitaria, il che avviene abbastanza di recente considerato che la sua prima “personale” è del 1984 – è essenzialmente un’analisi esistenziale che l’artista persegue con severa puntigliosità e rara coerenza formale. Quelli che sembrano nella sua opera colloqui con la natura, il paesaggio e le cose circostanti sono in realtà le pagine di un diario interiore che l’artista continuamente impagina e sfoglia sotto la pressione della memoria e dei ricordi. Le tele sono allora un continuo alternarsi di rimandi tra il
qui e l’altrove (significativamente questo è stato proprio il titolo di una sua recente “personale”); titolo indicativo quanto mai giacché è la chiave di volta per una comprensione se non esaustiva perlomeno non generica del suo mondo artistico. É una chiave che individua i poli fondamentali della sua ispirazione nel tempo e nello spazio, nel qui e nell’altrove dunque. In queste pagine non c’è alcuna rappresentazione esteriore perché l’unica rappresentazione possibile per l’artista è la meditazione sugli stati d’animo e sui tentativi di uscire dal buio del tormento alla luce della serenità visibile.
daimon É un
esilio interiore che l’artista riporta nelle sue tele: solitudine e privazione. E quando la solitudine diviene insopportabile, si riduce ad una straziante tensione tra il silenzio e la parola, tra il qui e l’altrove. Qualcosa si è spezzato nell’anima, una scissione ha dimidiato l’essere; e di fronte a questo spasimo dell’anima le immagini si sfilacciano in sbrendoli e lacerti di quella che era la forma umana, ridotta in pietosi manichini che penzolano, poveri fantocci senza vita. Ma questa vita è un teatro – il teatro della vita -, prima oscuro e vuoto, privo d’animazione ma poi si anima, si popola e si riempie con l’irrompere di figure e di personaggi che si rincorrono e per così dire si riflettono in continuazione tra sogno e realtà, in un gioco inesistente di rimandi: il teatro, e la vita, come rappresentazione, dunque, di stati d’animo dove la loro intensità raggiunge il diapason nell’urlo munchiano del pagliaccio. “Allora – ha rilevato la stessa Batich – la maschera diventa animatrice della messa in scena e del dietro alle quinte dei miei consumati e frammentati teatri di carta e tela. Maschere come personaggi che si preparano a recitare i consueti ruoli, inconsapevoli di agire immersi in una non-realtà che sovverte presenze, scompagina equilibri e dimensioni seguendo i simboli archetipi del sogno e della metamorfosi del doppio e dell’ombra (…) le maschere e i Pierrot, le lastre di perspex che colorano e riflettono in trasparenza improbabili paesaggi, così come i postmoderni pinocchi, ricavati dal legno di vecchi telai (…) rimandano a un mondo misterioso, prigioniero in una rete di obbligati destini e lontane prospettive”.
pinocchio_tenda_Franca_BatichMa è con l’incessante riscrittura dei dati, che la memoria prepotentemente insiste a dettare, che l’artista supera quello sbigottimento che l’atterriva e la costringeva a rappresentare lo strazio interiore in grandi distese di colore che davano la palmare dimostrazione della solitudine e della desolazione; ma quando in queste ampie distese – segni di prospettive lontane, di remoti, irraggiungibili orizzonti – le linee che le intersecano lasciano degli imprevisti interstizi ed inattesi squarci, è in essi che si rifugia l’anima dapprima con terrore e incertezza; e quando tra questi spazi quasi rubati e strappati alla solitudine l’anima si crea le sue nicchie e le sue piccole isole, essa ha ritrovato la sua integrità, ha dischiuso le porte per uscire verso un ritrovato rasserenamento.
Sono ancora i ricordi, la memoria dei fatti e degli accadimenti che tornano a galla ma, adesso, distesi negli infiniti spazi delle praterie dell’anima, essi risollevano l’artista dalla prostrazione; nelle ampie distese di colore adesso l’uscita verso la luce è più agevole, la concentrazione su di sé e la meditazione sul proprio io più pacate, l’immersione nel turbinio della vita più accessibile: è il ritrovamento già pieno e sodo di quell’
altrove dove l’artista, meglio: l’anima dell’artista, si ripara nella recuperata serenità, con le fratture che si risanano e si ricompongono. Franca BatichE con esso l’astrazione, che sola è in grado di rappresentare e di rendere queste interiorità, si fa più calda e palpitante, più vivida e smossa; abbandona quel che di algido, di lontano e di distaccato aveva, quel senso di aura remota e irreale, per acquistare ancora maggiore densità materica, come qualcosa di palpabile e di tangibile. É una nuova espansione dell’essere che si affaccia, anche se ancora trattenuta e intercettata da un senso di pudore che però dà all’espressione qualcosa di misterioso e di arcano, di intimamente personale, nel quale l’accesso all’estraneo è impedito, o almeno gli vieta di andare fino al fondo nell’esplorazione di questo segreto personale. Ed è per questo che l’arte della Batich è espressione di una poesia di silenzio e del silenzio, che quasi non parla, sussurra e suggerisce invece, che sostituisce il sensibile all’allusivo; e, se pure è pagina di intensa spiritualità, essa scorre in una singolare, peculiare atmosfera di lirismo denso di soffusa malinconia ma anche di rasserenata armonia.

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