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FUORI COLLANA
RICORDANDO
ANITA PITTONI pubblicato nel 2013 |
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Nella ricorrenza del trentennale della scomparsa di Anita Pittoni l'Istituto Giuliano di Storia Cultura e Documentazione ha affidato all'estensore di questa nota l'incarico di organizzare una giornata di studio per ricordare l'illustre concittadina e per fare il punto sulla percezione che della sua opera, complessa e articolata, si ha nella cultura della sua città a distanza di un intervallo temporale sicuramente ormai significativo e tale da consentire una serena valutazione dello spessore che la sua presenza è riuscita ad assumere nella cultura e nella società che è stata teatro della sua vicenda biografica e della sua opera.
Fatica di poco conto quella di richiedere le adesioni agli studiosi che avrebbero dovuto presentare un loro contributo al convegno: sembrava che ciascuno degli interpellati stesse aspettando di essere convocato, tanto immediata ed entusiastica è stata l'adesione alla proposta che proveniva dall'Istituto Giuliano: un primo indizio di come l'opera e la figura dell'intellettuale triestina sia tuttora considerata parte integrante del panorama culturale cittadino, il che si spiega se non altro per la collocazione della sua esperienza umana in un lasso di tempo che racchiude al suo interno il periodo aureo della cultura triestina, toccando da un lato Italo Svevo e proiettandosi fino al nostro presente con personalità quali quelle di Claudio Grisancich o di Ugo Pierri, entrambe uscite dalla sua "incubatrice" di via Cassa di Risparmio.
Oltre alla pronta e cortese disponibilità dei relatori, tuttavia, un insieme di ragioni ha reso possibile la realizzazione di altri eventi accomunati dall'intento di ricordare con la concretezza delle cose (come certo a lei sarebbe stato gradito) la figura dell'intellettuale triestina. L'intreccio anche temporale tra le iniziative messe in cantiere dall'Istituto Giuliano e quelle realizzate dalla Provincia di Trieste, che hanno consentito la pubblicazione del Diario 1944-1945 di Anita Pittoni per i tipi di Simone Volpato Studio Bibliografico, ha suggerito l'opportunità di istituire una mostra documentale su una gran messe di manoscritti e dattiloscritti in gran parte inediti, fotografie e rarità editoriali messi a disposizione da collezionisti privati. Oltre a ciò, a celebrare in qualche modo il ricordo della poetessa con le sue stesse parole, filtrate e riorganizzate dalla sensibilità di un altro artista, si è pensato di presentare in due diverse occasioni il volume Per Anita, di Claudio Grisancich, primo numero della collana Libreria di Artecultura pubblicato per i tipi della Hammerle Editori in Trieste, che comprende due testi teatrali ispirati entrambi alla biografia della Pittoni, Un baseto de cuor e Ste pice parole voio dirte stasera, quest'ultimo letto integralmente dall'attrice Giuliana Artico in ciascuna delle due serate, tenutesi rispettivamente presso la Sala Baroncini delle Assicurazioni Generali il 26 novembre 2012 (a cura dell'Istituto Giuliano, con introduzione di Fulvio Senardi e del sottoscritto) e presso il Magazzino delle Idee (a cura della Provincia di Trieste e alla presenza di Grisancich) il 2 dicembre 2012.
Nelle due serate animate dall'interpretazione di Giuliana Artico, come pure negli altri casi delle manifestazioni organizzate dall'Istituto Giuliano, è stata offerta in omaggio al pubblico una copia di un supplemento speciale al mensile Trieste Artecultura integralmente dedicato al ricordo della Pittoni. Il fascicolo, stampato a colori grazie alla collaborazione della Provincia di Trieste, comprende contributi di Cristina Benussi, Fulvio Senardi, Claudio Grisancich, Simone Volpato, Irene Visintini, Rossella Cuffaro, Laura Vasselli e Gabriella Norio, che in forma più giornalistica precorrono gli interventi successivamente svolti con maggiore ampiezza nella giornata di studio del 22 novembre.
La mostra intitolata Anita Pittoni - Carte private è stata ospitata nelle sale espositive del secondo piano della Biblioteca Statale Stelio Crise di Largo Papa Giovanni a Trieste dal 20 novembre al 7 dicembre, curata da Simone Volpato, da Sergio Vatta e dal sottoscritto.
Il percorso espositivo prevedeva sette tappe, ciascuna contrassegnata da un titolo, e allestita all'interno di una capace bacheca che esibiva i relativi documenti. S'iniziava frugando direttamente sullo «Scrittorio di Anita Pittoni»: manoscritti e dattiloscritti delle sue opere, a partire da Le stagioni, 1944-1945, dattiloscritto e manoscritto con correzioni di Giani Stuparich, quindi il dattiloscritto definitivo con dedica a Giani, e poi manoscritti o dattiloscritti delle altre sue opere, Fèrmite con mi e El passeto. Tra le altre carte, una lettera autografa di Virgilio Giotti, del 1948, che esprimeva un giudizio tutt'altro che lusinghiero sulla poesia dialettale della Pittoni, a proposito in particolare di Fèrmite con mi.
Il secondo passaggio suggerito dal percorso della mostra era intitolato «Inediti d'autore» e comprende una biografia inedita di Italo Svevo, Cronistoria sveviana, redatta alla fine degli anni Cinquanta, parzialmente dattiloscritta e parzialmente manoscritta, con numerose fotografie. Tutta fotografica la terza tappa dell'itinerario suggerito dalla mostra, intitolata «Volti e figure», che esibisce una grande quantità di immagini fotografiche in gran parte inedite di Umberto Saba, Giani Stuparich, Virgilio Giotti, Agnoldomenico Pica, oltre che della stessa Pittoni.
La tappa che si è voluta intitolare «Prima della stampa» introduce l'illustrazione del lavoro di editore di Anita, presentando le bozze di stampa di un unico volume della sua casa editrice: si tratta di Noi vegnaremo, prima pubblicazione in dialetto di Claudio Grisancich, curata personalmente dalla Pittoni di cui si possono leggere, sulle bozze di stampa, le osservazioni autografe e le indicazioni al tipografo, che rivelano ciascuna la meticolosa, quasi ossessiva acribia con la quale l'esigente editrice impostava il lavoro che conduceva a termine senza tralasciare nessun dettaglio, fino al compirsi di una esecuzione assolutamente impeccabile. Strettamente collegato a quest'ambito, alla sua attività di editore cioè, appare il contenuto della quinta bacheca, sotto il segno del titolo «Le armi dell'editore» sono esibite una serie di cataloghi dello Zibaldone e una serie di Notiziari, curati personalmente dalla Pittoni, aventi il compito di informare i possibili acquirenti e le librerie delle novità editoriali che si venivano accumulando via via che si arricchiva il catalogo della piccola e prestigiosa Casa editrice.
Ci si avvicina così all'isola bibliografica forse più clamorosa dell'esposizione, intitolata «Rarità del Centro di Studi Triestini Giani Stuparich», con diretto riferimento al tentativo della Pittoni di istituire un centro in cui raccogliere manoscritti e rarità degli autori triestini, iniziando con la bibliografia degli scritti su Giani Stuparich, ma includendo naturalmente, con onnivora voracità, qualsiasi altro documento che potesse riverberare il suo contenuto sulle conoscenze relative all'ambito letterario prevalentemente (ma non esclusivamente) giuliano. Ideato nel 1963, il Centro Studi Triestini trovò realizzazione nel 1966, cioè a dire tre anni prima che prendesse corpo il Fondo Manoscritti voluto da Maria Corti a Pavia. Andato disperso assieme a molte altre cose della Pittoni, è stato possibile reperirne una parte recentemente, e di tale parte la mostra allestita alla Biblioteca Statale ha potuto esibire alcuni "pezzi" di straordinario interesse, come i dattiloscritti di tre poesie di Umberto Saba poi rifiutate nell'edizione ne vari etur del Canzoniere, presenti qui con notevoli varianti rispetto ai testi pubblicati e un altro dattiloscritto, attribuibile allo stesso Saba, contente un lungo testo in versi (132 versi, ordinati in trentuno quartine ed un'ottava) col quale il poeta si rivolge all'amico Giorgio Fano soffermandosi sulla figura di Adele Weilfler, la bellissima sorella di Lina, della quale pare fosse innamorato il filosofo triestino, ma anche Virgilio Giotti.
Ultimo nell'ordinamento voluto per la mostra organizzata dall'Istituto Giuliano un doveroso spazio è stato riservato all'attività artistica della Pittoni in ambito figurativo, il che quasi per intero si riassume nella sua attività di artigianato d'arte che tanto successo riscosse fino al tempo di guerra: cataloghi di importanti mostre realizzate a partire dagli anni Venti e per tutti gli anni Trenta del secolo scorso, quando arrideva ad Anita uno strepitoso successo commerciale e non soltanto commerciale, come dimostrano la qualità delle esposizioni cui partecipava, quella dei suoi compagni in tali esposizioni, la collaborazione a riviste quali Domus e Lil.
Come si può dedurre anche dalla pallida rappresentazione che in queste righe si è tentato di offrire, la mostra della Biblioteca Statale è stata un'importante occasione per accostare la figura della Pittoni cogliendone ogni significativo aspetto nell'articolazione dei suoi interessi artistici, culturali, creativi e nella fitta rete delle sue relazioni personali con quanto di meglio era possibile attingere nel ricco panorama culturale di una città che viveva, in anni storicamente anche molto difficili, una sua stagione di multiforme ricchissima intensità.
La giornata di studio, come potrà rendersi conto chi scorrerà queste pagine, ha avuto il merito di trattare approfonditamente la poliedrica personalità dell'intellettuale triestina, inserendola per di più in un'adeguata riflessione circa quello che è stato lo sfondo di vicende storiche nonché di relazioni interpersonali che hanno costituito lo sfondo del suo agire artistico come pure di quello pratico, costituendone anzi sovente la spinta propulsiva.
Ospitata, per gentile concessione della Provincia di Trieste, presso la nuovissima aula-auditorium del Magazzino delle Idee, la giornata di studio sulla Pittoni è stata aperta, dopo un saluto da parte della presidente della Provincia Maria Teresa Bassa Poropat, da un'analisi condotta da Cristina Benussi circa l'estetica che ha ispirato il lavoro della Pittoni, a partire dalla sua attività di tessitrice, archetipo femminile, che sta alla base del suo lavoro creativo. Come rileva la Benussi, la riflessione estetica della Pittoni è documentata in numerosi scritti tra i quali anche quelli comparsi su Lil, la rivista d'arte e di moda da lei diretta dal 1933 al 1934; la poliedrica artista «ci ha lasciato osservazioni importanti per definire gli ambiti di un'estetica femminile, per molti aspetti alternativa all'altra, quella maschile, di solito pensata come universale». Tale seconda estetica, modellata sul dettato crociano allora imperante, teneva prevalentemente conto dei sensi della vista e dell'udito, mentre ad esempio la Pittoni propone il tatto, con il suo portato di contatto diretto tra opera e artefice e fra opera e fruitore, come uno dei componenti essenziali alla comprensione del fenomeno estetico. Partendo da questo e pochi altri assunti, la Benussi, come si può leggere nelle pagine qui di seguito recanti per intero il suo contributo, analizza l'elaborazione teorica della Pittoni mettendola in relazione con quella, altrettanto scevra di conformismi, di altre artiste coeve (Gianna Manzini, Anna Banti, Anna Maria Ortese, Fausta Cialente), ricavandone un quadro di grande novità nel panorama culturale a partire dagli anni Trenta del secolo scorso e, per quanto più strettamente attiene alla vicenda creativa della Pittoni, soffermandosi su un'analisi dei contenuti che si estende, ovviamente, alla sua opera letteraria.
Su materia analoga è basato anche il secondo contributo, dovuto a Laura Vasselli, che in particolare si sofferma su una dettagliata analisi degli scritti giornalistici della Pittoni sul lavoro di artigianato artistico, così come compaiono sulla stampa periodica, a iniziare da un articolo del febbraio 1931 pubblicato su Domus, la prestigiosa rivista fondata da Gio' Ponti. Due anni più tardi le viene offerta la direzione di Lil. Lavori in lana, iniziativa editoriale prodotta dall'industriale Magni per supportare la commercializzazione dei prodotti della Manifattura di Lane in Borgo-Sesia. Su questa rivista Anita non si limiterà a pubblicare gli editoriali ed altri articoli, ma anche disegni colorati, fotocomposizioni, tracciati tecnici e indicazioni per l'esecuzione a maglia dei capi di abbigliamento o complementi di arredo da lei appositamente creati. Ogni numero della rivista si apre con un editoriale in cui la direttrice «riflette su argomenti come la percezione del colore, l'importanza tattile della materia, il nuovo rapporto che deve legare l'artista all'artigiano, l'esperienza sinestesica dell'opera d'arte, l'esigenza di istruzione artistica femminile. Argomenti del genere non si erano mai visti in queste riviste dove le donne cercavano solo modelli da ricamare o da eseguire a ferri o all'uncinetto ricalcando in modo acritico i repertori tradizionali». Come si vede, un forte richiamo dell'autonomia e della libertà dell'artista, che intende così spartirle con le sue lettrici.
Con la relazione di Fulvio Senardi si ritorna a parlare di lettere e di poesia e in particolare di poesia dialettale, che viene qui indagata innanzitutto nelle sue motivazioni, correlate da un lato al diffusissimo interclassista uso che del dialetto si faceva (e ancora largamente se ne fa) a Trieste e dall'altro viene messa in relazione con una riscoperta del dialetto che proprio negli anni nei quali maturava la vocazione lirica della Pittoni veniva profilandosi, soprattutto con il crescente prestigio che circondava a Trieste l'opera di Giotti, ma anche con la pubblicazione di Poesia dialettale del Novecento di Dell'Arco e Pasolini, volume che verrà recensito dalla stessa Pittoni in un articolo che individuava nei dialettali «poeti genuini, freschi di vena, liberi da soprastrutture letterarie». In estrema sintesi - osserva Senardi - «la poesia in dialetto dunque, [...] offrirebbe la possibilità di schivare il pericolo delle sovrastrutture letterarie, realizzando una sintesi tra realtà e ispirazione che evita, da un lato, il realismo volgare, dall'altro le oscurità gratuite dell'ermetismo». (È appena il caso di notare che tale descrizione si attaglia perfettamente all'aspirazione a quella "poesia onesta" invocata da Saba e pubblicata per la prima volta proprio nelle edizioni dello Zibaldone nel 1959).
Ciò premesso, l'analisi di Senardi si addentra nell'individuazione dei principali motivi presenti nella produzione in versi dialettali, a partire dalla contemplazione di sé e dei famigliari, in Mi e i mii, prima parte di Fermite con mi o più tardi, per quanto attiene alla figura del padre, nel Passeto, indizi di una predisposizione all'autoanalisi che troverà, in quella che era stata nei primi anni del secolo passato la città più freudiana d'Italia, una significativa consonanza con uno dei tratti più tipici della giovane tradizione letteraria triestina. Si compone così, già a partire dalla prima raccolta, «un autoritratto nel tempo stesso compiaciuto e senza indulgenza, che valorizza il ribellismo antiborghese (nutrito di disprezzo per il perbenismo, le ipocrisie di classe, le cerimonialità di un'appartenenza comoda e fruttuosa, ma, rovescio della medaglia, non alieno esso stesso da valori in fondo borghesi di operosità, ordine, pulizia, anche e soprattutto morale, sincerità portata magari fino alle soglie dell'(auto-)crudeltà».
Come racconta nel suo contributo Gabriella Norio, dal suo osservatorio privilegiato di conservatrice del Fondo Pittoni istituito presso la Biblioteca Civica di Trieste (acquisito, in varie fasi e periodi, dal Comune di Trieste, sia attraverso donazioni sia attraverso acquisti) la conservazione delle carte, dell'epistolario e di tutto quanto poi confluì nel Fondo era frutto già nei primi anni Sessanta di un'ossessione dell'intellettuale triestina che conservava, in un suo ferreo ordine, i documenti che dopo la sua morte andarono dispersi e che soltanto con molta fatica, negli anni seguenti si sono potuti recuperare in buona parte e mettere quindi a disposizione degli studiosi.
L'arco cronologico dei documenti conservati presso la Biblioteca si estende dal 1908 al 1978 e comprende, oltre alle lettere, conservate per mittente dal 1934 al 1973, anche i cartamodelli, ordinati all'interno di buste create dalla stessa Pittoni e riguardanti ciascuna un modello realizzato nell'ambito della sua attività artigianale nello Studio d'Arte Decorativa da lei stessa creato, nonché le serie archivistiche riguardanti Giani Stuparich (comprendenti ritagli di giornali e riviste, testi di discorsi tenuti dallo scrittore, dattiloscritti di suoi interventi radiofonici ed altri documenti). Fanno ovviamente parte del Fondo una serie archivistica dedicata alla casa editrice Lo Zibaldone, una di ritagli ed articoli riguardanti la stessa Pittoni o scritti da lei, un'altra riguardante Trieste e la Venezia Giulia, un'altra ancora consistente in una raccolta emerografica concernente Giani Stuparich o la Pittoni e infine un'ultima riguardante la biblioteca personale dell'artista.
A inquadrare storicamente la figura di Anita, soprattutto narrando le vicende dello zio Valentino, deputato e leader non solo dei socialisti giuliani, ma anche in qualche modo della famiglia Pittoni provvede l'analisi di Marina Rossi che inserisce il personaggio nel quadro del socialismo triestino, nato da radici mazziniane e garibaldine, transitato poi nella Seconda Internazionale grazie al fatto che nel 1897 la socialdemocrazia austriaca aveva dato spazio all'idea di nazione articolandosi in partiti nazionali, tra cui quello italiano. Dalle elezioni del 1907, con la clamorosa vittoria dei socialisti sui liberal-nazionali, dovuta al fatto che per la prima volta si votava a suffragio universale, Pittoni esercitò un ruolo progressivamente sempre più centrale nella politica triestina, sedendo al parlamento di Vienna ed esercitando, soprattutto in relazione al problema nazionale, una linea politica rigorosamente lontana da ogni irredentismo. «Per risolvere la questione nazionale i socialisti proponevano i principi del programma di Brünn (o Brno) che faceva della questione nazionale un problema culturale e amministrativo, proponevano in sostanza una sorta di regionalismo, cioè di sostituire in Austria le regioni storiche (Kronlànder) con circoscrizioni autonome, etnicamente delimitate: così le forze nazionali delle diverse etnie dell'Impero avrebbero potuto svilupparsi liberamente, e nelle zone mistilingui ci sarebbe stata tutela dei gruppi minoritari. L'unità dell'Austria sarebbe stata non più un ostacolo, ma il supporto indispensabile di questo sviluppo, e ciò valeva in particolare per Trieste, che avrebbe potuto conciliare l'economia commerciale con la sua esigenza nazionale. Era in primo luogo politica di educazione». Purtroppo, com'è noto, la linea politica seguita dai socialisti triestini risultò alla fine soccombente, schiacciata tra il nazionalismo degli austromarxisti e quello delle correnti interventiste nella società italiana, cui avrebbe dato fiato anche Mussolini, che era stato direttore dell'Avanti!.
L'azione politica di Valentino Pittoni aveva consentito una grande crescita del sindacalismo e del cooperativismo a Trieste, insieme a un rilevante influsso nella cultura alto-adriatica, grazie ad istituzioni quali il Circolo di Studi Sociali e il quotidiano Il Lavoratore, che in tempo di guerra raggiunse le 70.000 copie, diventando l'organo di informazione sicuramente più autorevole. Oltretutto, per disposizione del Pittoni, il quotidiano socialista assunse i redattori de Il Piccolo, dopo che questo fu dato alle fiamme alla vigilia del 24 maggio 1915, senza pretendere dagli antagonisti di sempre alcun gesto di abiura. Lo "Zio Valentino", che morì in povertà a Vienna nel 1933, fu probabilmente la figura di riferimento per tutta la famiglia e dalla sua azione derivò certo il prestigio del personaggio, ma anche il rigore morale e il senso di responsabilità nei confronti della società che in qualche modo furono alla base di molti comportamenti di Anita.
Con la relazione di Michela Messina si ritorna a parlare del lavoro di artigianato d'arte, riflettendo sul rapporto di amicizia che legò Anita Pittoni alla pittrice triestina Maria Lupieri (Trieste, 1901-Roma, 1961), sua coetanea e prima di lei attiva nella creazione tessile. Percorsero entrambe le medesime strade, quelle tracciate dal futurismo, dal costruttivismo, dal razionalismo, dal funzionalismo e dal surrealismo, sia pure lavorando in ambiti differenti (la Pittoni in quello del ricamo, della maglieria e della confezione, l'altra in quello della stampa su stoffa e della decorazione su cuoio). È probabilmente Maria ad aprire alla Pittoni alcune porte nel mondo milanese della moda, considerato che nel capoluogo lombardo negli anni in cui è stata impegnata presso il laboratorio di stoffe d'arte di Rosa Menni Giolli (Milano 1889-Vacciago, Novara 1975), noto come "Le stoffe della Rosa", l'atelier costituisce uno dei punti di riferimento del settore. Sia l'esperienza lavorativa presso il laboratorio, in cui si sperimentavano tecniche decorative innovative in una fase in cui si stavano trasferendo competenze e produzioni dall'artigianato all'industria, che la frequentazione di personalità di primo piano dell'architettura e del design consentiranno alla Lupieri di completare il suo percorso formativo, finché il laboratorio di Rosa Menni Giaolli, tra il 1928 e il 1930, chiuderà i suoi battenti e la Lupieri farà quindi ritorno a Trieste. Per alcuni anni, fino al 1934, l'attività delle due artiste triestine pare procedere di pari passo, con la partecipazione alle medesime occasioni espositive locali e nazionali. Un'esperienza parallela delle due amiche è inoltre data dall'istituzione di due scuole di artigianato create per iniziativa dell'ENAPI, Ente Nazionale per le Piccole Industrie, nelle quali entrambe insegnano. Al termine di quell'esperienza didattica, la Pittoni avvia il suo Studio d'Arte Decorativa, che fino al 1949 otterrà un crescente successo in ambito nazionale e anche internazionale, mentre la Lupieri sembra abbandonare le sue esperienze nell'ambito decorativo per dedicarsi con maggiore impegno alla produzione pittorica, il che non le impedirà tuttavia di tornare con una certa assiduità all'attività di creazione di stoffe per lo più stampate, delle quali sono presenti in collezioni private triestine alcuni bozzetti. Nonostante la divaricazione dei percorsi lavorativi ed artistici seguiti le due amiche mantennero in comune l'orgoglio per le attività intraprese e la Lupieri, a testimonianza di ciò, in un articolo intitolato Anita Tosoni Pittoni e le sue opere d'arte, pubblicato dal Gazzettino di Venezia il 21 giugno 1941, come osserva la Messina, «fin dal titolo ella dà voce all'istanza, che non è solo loro, di rivendicare per i creatori di oggetti di arte applicata lo status di artisti a tutti gli effetti, perché "non esiste una differenza sostanziale, per quello che è il fatto pittorico entro una sensibilità di colore, tra il dipingere con il pennello sopra una tela o direttamente unire e fondere le tinte con un materiale di filo, lana, spago"».
Impossibilitato a intervenire personalmente al convegno per ragioni di salute, Claudio Grisancich ha inviato un suo contributo scritto recante la sua testimonianza circa quella che fu una delle attività della poliedrica intellettuale triestina in cui maggiormente si spese, ossia quella di organizzatrice anche informale di cultura, con l'apertura della sua casa di via Cassa di Risparmio numero 1 a un cenacolo di personalità che, ruotando attorno alle due presenze costanti di Giani Stuparich e di Virgilio Giotti, costituì per anni un punto d'incontro anche generazionale di cui lo stesso Grisancich usufruì per la sua formazione civile e intellettuale. Ma, nel suo intervento, Grisancich si sforza di compitare un elenco quanto più possibile esaustivo di quanti transitarono, dopo la scomparsa di Giotti prima e di Stuparich poi, per quelle stanze, radunati attorno a dei bicchieri di vino dopo che una mostra di Ugo Pierri aveva scalzato con i grossi bicchieri da osteria le tazze di the che in precedenza dominavano la scena. Ne vien fuori un elenco di personalità che anche per tutti gli anni a venire avrebbero connotato la vita artistica e culturale di Trieste, da Guido Voghera a Ruggero Rovan, e poi da Fabio Todeschini a Stelio Crise da Roberto Costa a Carlo Ulcigrai, da Marcello Mascherini a Paolo Speri, da Claudio Venza a Tullio Gombac, da Giorgio Conetti ad Arduino Agnelli, da Jole Pirjevec a Marino Cassetti.
Grisancich, alla fine della sua testimonianza, ha voluto inserire un passo di una lettera ricevuta, durante il servizio militare, dalla Pittoni, che l'aveva ricopiata da una sua lettera a Stuparich dell'aprile 1951. Intendiamo farlo anche noi, dal momento che molte cose della complessa personalità di Anita sembrano condensate in quelle poche righe: «La patria è quella terra dove si parla la propria lingua, poi è la regione, poi è la città dove si è nati, poi è la casa dove si vive, poi è la stanza dove si lavora, e questa è la più grande patria trasportabile in ogni parte del mondo, e si elegge a patria, in questo senso, la stanza più tranquilla, dove meglio si lavora». Della prosatrice in lingua italiana si è invece occupata Irene Visintini, che ha rivisitato le opere della Pittoni a partire dal volumetto Le stagioni, pubblicato nel 1950, non senza esitazioni, come terzo libro della prima serie dello Zibaldone e segnalato al premio Viareggio. In esso una teoria di pensieri introspettivi nell'altra s'inoltra dopo l'altra in un paesaggio all'apparenza privo di riferimenti cronologici, una lunga riflessione sulla propria realtà interiore che genera una sorta di dialogo dell'autrice con se stessa. Dopo una digressione tendente a definire la poetica della Pittoni desumendola da una sua lettera ad Angelo Barile (riportata qui più avanti nel testo della Visintini), la studiosa si sofferma nell'analisi delle altre opere in prosa, incappando così, nel seguire un filo cronologico, nei racconti di Passeggiata armata, pubblicati nel '71 sempre nelle edizioni dello Zibaldone, cui seguiranno i tre aneddoti sabiani di Caro Saba, per tornare indietro a quel «prezioso libro di saggistica», quell'Anima di Trieste. Lettere al professore con documenti rari e inediti, pubblicato da Vallecchi nel 1968.
In uno scritto autobiografico, la Pittoni narra di come, nel giorno stesso del conseguimento della sua maturità classica, fosse stata indotta dalla madre a riconoscere che le precarie condizioni economiche della famiglia non le avrebbero consentito di proseguire gli studi, come pure avrebbe auspicato. È così che decide di recuperare quanto ha appreso in casa dagli insegnamenti della madre e punta sulle sue competenze di taglio e cucito, di lavoro all'uncinetto e di ogni altra tecnica desunta dal non ampio panorama dei lavori cosiddetti femminili. Da questa ingiustizia (i fratelli maschi potranno proseguire gli studi) e dal recupero di quelle tecniche prende il via il contributo di Rossella Cuffaro che afferma «tra le sue dita ago e uncinetto, da simboli di domesticità forzata, si trasformano in strumenti per affermare il proprio processo creativo e fin dal 1927, a differenza di tante colleghe che si ritraggono dalla visibilità pubblica, pretende spazi di affermazione personale attirando su di sé l'attenzione di una generazione nel complesso impreparata». Le innovazioni tecniche, che nel laboratorio di Anita troveranno applicazione e con successo andranno ad arricchire la sua proposta commerciale, sono il frutto da un lato di una naturale incontentabilità del personaggio, che la stimolerà a ricercare sempre vie nuove per arricchire la qualità della sua offerta e dall'altro lato di una riflessione teorica che affiancherà quella pratica soprattutto nell'esperienza di direttrice della rivista LIL Lavori in lana che, pure uscendo per soli cinque numeri, offrirà un'importante chiave di lettura per tutta l'attività creativa della Pittoni. Legata all'uso di materie prime «povere», quali canapa e iuta, non disdegnerà affatto di sperimentare le fibre che le verranno offerte dalla proposta industriale autarchica, al contempo essendo interessata, per la frequentazione dei più importanti studi di architettura milanesi all'affermarsi del design industriale italiano che muoveva allora i suoi primi passi. Ciononostante, la sua costosa produzione rimane destinata a una clientela borghese, in grado di potersi permettere i prezzi di accurate lavorazioni artigianali ed anche in questo, con la guerra, si possono rinvenire le cause del declino della sua impresa di artigianato d'arte. Tenterà, nel dopoguerra, anche la strada di una scuola professionale in grado di evitare la dispersione di competenze e abilità cumulate nell'esperienza della sua impresa artigiana, ma la mancanza di finanziamenti la indusse a desistere. Così conclude la Cuffaro la sua rivisitazione dell'attività e della personalità della Pittoni: «Anita è una donna stramba, senza marito, né figli, un'egocentrica autodidatta talvolta spaventata da un carattere troppo forte ma più di altre capace di cogliere i cambiamenti in atto della cultura del suo tempo. Con una volontà di ferro partecipa al dibattito artistico confrontandosi su un terreno di pertinenza maschile, testimone della felice contaminazione tra arte e tecnica nella quale originalità, ricerca, essenzialità e funzionalità si fondono nell'esercizio del Bello.».
Per quanto attiene alla attività editoriale, la relazione della giornata di studio è stata affidata a Simone Volpato, che ha voluto riaffermare nel suo intervento l'alta qualità del lavoro editoriale della Pittoni. Lo studioso ed editore non ha tuttavia ritenuto di far pervenire un suo contributo scritto in occasione della creazione del presente volume, per cui, di necessità, esso non compare nelle pagine che seguono.
Ha concluso i lavori della giornata di studio Sergio Vatta, che nel suo intervento ha tratteggiato la figura della Pittoni in quanto pittrice, ricordando che nella sua poliedrica attività questo tratto distintivo viene da lei esibito ancora nel secondo dopoguerra, quando si tratta di fornire un'indicazione per ottenere un documento d'identità. L'esordio in tale sua attività risale al 1927, quando presenta un arazzo disegnato da Marcello Claris alla Prima Esposizione sindacale triestina, inaugurando con tale opera un sodalizio tra i due artisti che molto gioverà nelle fasi di avvio dell'attività di artigianato d'arte della Pittoni. La prima personale di quest'ultima si terrà a Roma nel 1929, presso il Circolo Artistico di Via Margutta; a proposito dei suoi arazzi, Anton Giulio Bragaglia annota come «la pittrice dell'ago usi il filo come i pittori usano il colore». Fin dalle opere allineate in questa prima mostra si può osservare da un lato la vicinanza a quelle dell'amico Claris (anch'egli impegnato in una personale romana nel medesimo periodo di quella della Pittoni) ispirate a modalità e temi del secondo Futurismo, mentre compaiono anche opere che «segnano senza incertezze un percorso estetico assolutamente personale. La sua rielaborazione grafica di motivi legati al Costruttivismo e alle avanguardie centroeuropee è un sicuro portato della sua conoscenza e amicizia con artisti triestini, quali Giorgio Carmelich e August Cernigoj, che rappresentano in quegli anni in città il vertice della sperimentazione artistica».
Dal Bragaglia, verosimilmente in occasione della stessa mostra romana, riceve l'invito a collaborare alla messa in scena de La veglia dei lestofanti, versione italiana dell'Opera da tre soldi di Brecht che verrà rappresentata a Milano nel 1930. Tra lavori per il teatro e realizzazioni per l'arredamento d'interni soprattutto destinati ai grandi transatlantici, l'attività artistica non conosce soste e la fresca inventiva dell'artista triestina trova modo di confrontarsi con problemi sempre più complessi nella realizzazione di elementi decorativi di grande impegno, dagli arazzi e i tendaggi per il transatlantico Conte di Savoia, per numerosi saloni di prestigiose istituzioni quali il Comune di Milano, fino al grande pannello ricamato su velo con episodi dei Fioretti di San Francesco, tuttora visibili nell'Aula Magna dell'Università degli Studi di Trieste, sorta - afferma Vatta - di testamento spirituale dell'artista.
L'insieme di queste relazioni della giornata di studio in onore di Anita Pittoni segna un momento significativo nella valutazione di una figura di artista e di intellettuale estremamente composita e versatile, sostenendo degnamente l'eredità di altri momenti di riflessione sulla sua opera e sul ruolo di primaria grandezza che essa ha avuto nella cultura giuliana, quali la mostra Anita Pittoni, straccetti d'arte. Stoffe di arredamento e moda d'eccezione, tenutasi a Trieste dal 20 marzo al 16 maggio 1999, alla cui riuscita concorsero anche alcuni degli studiosi partecipanti all'iniziativa dell'Istituto Giuliano di Storia Cultura e Documentazione che si conclude, crediamo degnamente, con la presente pubblicazione.
clicca sull'immagine per leggere il testo in originale - tratto dal PICCOLO di Trieste del 17 novembre 2012